Ultimamente ho affrontato il Piano legato alla gestione delle acque ed ho ricordato che, purtroppo, spesso e ripetutamente si è preferito denunciare la importanza di un simile obiettivo, si è ribadito la essenzialità di avviare un processo organico mirato a riportare nella normalità l’approvvigionamento idrico e, purtroppo, ho precisato che si è fatto molto poco rispetto a quanto annunciato. Ho anche portato un esempio che, a mio avviso, rimane finora l’unico esempio che ha tentato di identificare, almeno per il Mezzogiorno, le azioni progettuali da attuare garantendone un apposito stanziamento. Quella fu una iniziativa costruita con le otto Regioni del Sud e fu supportata dalla Legge 443/2001 (Legge Obiettivo).
Oggi invece affronto un altro tema che ritroviamo in modo sistematico in tutti i Programmi dei Governi che si sono succeduti nell’arco di almeno mezzo secolo, mi riferisco al Piano per mettere in sicurezza il territorio. Da almeno un decennio nei vari elaborati propedeutici ad un simile atto programmatico troviamo un dato: per mettere in sicurezza il territorio occorrerebbero circa 26 miliardi di euro e dopo una capillare analisi delle spese finora sostenute dallo Stato per tale finalità si è appurato che negli ultimi venti anni la spesa reale non ha superato la soglia di 6,5 miliardi di euro e si è anche avuto modo di verificare che annualmente si è speso non più di circa 320 milioni di euro.
Ritengo utile ricordare, a tale proposito, quanto già riportato in diversi comunicati stampa, mi riferisco alla Corte dei Conti che in una nota formale ha precisato: “il Piano nazionale per la mitigazione del rischio idrogeologico, il ripristino e la tutela della risorsa ambientale (più noto come Proteggitalia varato nel 2019) non ha unificato i criteri e le procedure di spesa, anche in relazione al PNRR, né ha individuato strumenti di pianificazione territoriale efficaci mentre permangono un’inaccettabile lentezza dei processi decisionali e di quelli attuativi, nonché le difficoltà delle Amministrazioni centrali e locali ad utilizzare i fondi stanziati”.
Il Policy Brief (Politiche di prevenzione e contrasto al dissesto idrogeologico. Valutazioni e proposte), proprio in questi giorni ha fatto presente che è fondamentale ed indispensabile: “la individuazione di una procedura uniforme per la gestione delle fasi di emergenza e ricostruzione; l’applicazione del modello della “resilienza trasformativa” alla fase di ricostruzione, evitando di realizzarla senza tener conto di rischi, come fatto nel passato; la necessità di triplicare la capacità di spesa per interventi di prevenzione del rischio idrogeologico segnalati dalla Regioni e di competenza del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, portandola rapidamente a un miliardo di euro l’anno rispetto agli attuali 300 milioni”.
Senza dubbio condivisibile una simile proposta ma nel caso specifico mi sembra limitativo ricorrere a soluzioni o a proposte coerenti alla logica “meglio di niente”; mi sembra limitativo perché ancora una volta non si tiene conto di due gravi fattori:
Il tempo, sì la mancata azione decisa in un determinato momento storico e capace di rendere concreta, in tempi certi, ogni azione finalizzata alla messa in sicurezza, rappresenta la condizione chiave ed essenziale perché si passi dalle buone intenzioni alla misurabile azione di sicurezza e questo non può rispondere ad una azione frantumata e non definita nel tempo
La copertura certa delle risorse, come dicevo prima è davvero limitativo ritenere accettabile il passaggio da 300 milioni a 1 miliardo l’anno e, cosa ancora più grave, non può una simile esigenza essere legata ad un impegno annuale da inserire nella Legge di Stabilità. Occorre, invece, ricorrere ad una norma che assegni una quota fissa del Prodotto Interno Lordo (una soglia tra il 2,5% e il 3,5%) per dare garanzia concreta nel tempo di una simile copertura finanziaria. Questa è una proposta che ripeto da sempre ed è una soluzione adottata in molti Paesi della Unione Europea
Ma per comprendere la urgenza e la dimensione della reale emergenza sono utili i seguenti dati che, proprio ultimamente, sono stati pubblicati dopo approfonditi aggiornamenti:
Il 93,9% dei Comuni italiani è a rischio frane
Sono vulnerabili per rischio frane almeno 1,3 milioni di abitanti
Sono vulnerabili per rischio alluvioni 6,8 milioni di abitanti
Ricordo che questa grave criticità è affrontata da ben sette Dicasteri che, tra l’altro garantiscono in modo frantumato e privo di organicità distinte coperture finanziarie. Cioè affrontiamo queste emergenze e queste calamità senza ricorrere ad una governance unica.
Quindi nel Documento di Economia e Finanza (DEF) che il Governo dovrà presentare al Parlamento il prossimo 15 aprile spero che ci siano non annunci o impegni generici ma ci sia la piena condivisione su una simile linea strategica.
Sono sicuro che dopo queste mie considerazioni ci saranno le solite controdeduzioni basate su un ripetitivo approccio concettuale e cioè: se questa emergenza ricopre un ruolo prioritario non avendo risorse adeguate perché il Governo non pensa di adottare solo un simile Piano senza pensare ad opere infrastrutturali come l’alta velocità ferroviaria o il Ponte sullo Stretto di Messina?
È una osservazione ed una critica che considero ingenua ed al tempo stesso priva di motivazioni in quanto:
La realizzazione di una nuova infrastruttura (strade, ferrovie, porti, ponti, gallerie, ecc.) è sempre una occasione per la messa in sicurezza di una rilevante parte del territorio interessato alla attuazione dell’intervento stesso
La messa in sicurezza conserva il nostro territorio ed è quindi già un arricchimento economico del patrimonio pubblico ma non si configura come una crescita organica ed immediata del Prodotto Interno Lordo
Una nuova infrastruttura invece è, a tutti gli effetti, un motore della crescita del PIL e consente un ridimensionamento del danno che la nostra offerta infrastrutturale produce nei processi logistici che interessano il Paese; un danno che nel 2022 ha superato la soglia di 93 miliardi di euro (Ricerca Divulga)