PRIMA HO AFFRONTATO IL TEMA LEGATO AL PIANO DELLA GESTIONE DELLE ACQUE OGGI AFFRONTO UN TEMA PIÙ PREOCCUPANTE E SU CUI SI È FATTO POCO: LA MESSA IN SICUREZZA DEL TERRITORIO

Ultimamente ho affrontato il Piano legato alla gestione delle acque ed ho ricordato che, purtroppo, spesso e ripetutamente si è preferito denunciare la importanza di un simile obiettivo, si è ribadito la essenzialità di avviare un processo organico mirato a riportare nella normalità l’approvvigionamento idrico e, purtroppo, ho precisato che si è fatto molto poco rispetto a quanto annunciato. Ho anche portato un esempio che, a mio avviso, rimane finora l’unico esempio che ha tentato di identificare, almeno per il Mezzogiorno, le azioni progettuali da attuare garantendone un apposito stanziamento. Quella fu una iniziativa costruita con le otto Regioni del Sud e fu supportata dalla Legge 443/2001 (Legge Obiettivo).

Oggi invece affronto un altro tema che ritroviamo in modo sistematico in tutti i Programmi dei Governi che si sono succeduti nell’arco di almeno mezzo secolo, mi riferisco al Piano per mettere in sicurezza il territorio. Da almeno un decennio nei vari elaborati propedeutici ad un simile atto programmatico troviamo un dato: per mettere in sicurezza il territorio occorrerebbero circa 26 miliardi di euro e dopo una capillare analisi delle spese finora sostenute dallo Stato per tale finalità si è appurato che negli ultimi venti anni la spesa reale non ha superato la soglia di 6,5 miliardi di euro e si è anche avuto modo di verificare che annualmente si è speso non più di circa 320 milioni di euro.

Ritengo utile ricordare, a tale proposito, quanto già riportato in diversi comunicati stampa, mi riferisco alla Corte dei Conti che in una nota formale ha precisato: “il Piano nazionale per la mitigazione del rischio idrogeologico, il ripristino e la tutela della risorsa ambientale (più noto come Proteggitalia varato nel 2019) non ha unificato i criteri e le procedure di spesa, anche in relazione al PNRR, né ha individuato strumenti di pianificazione territoriale efficaci mentre permangono un’inaccettabile lentezza  dei processi decisionali e di quelli attuativi, nonché le difficoltà delle Amministrazioni centrali e locali ad utilizzare i fondi stanziati”.

Il Policy Brief (Politiche di prevenzione e contrasto al dissesto idrogeologico. Valutazioni e proposte), proprio in questi giorni ha fatto presente che è fondamentale ed indispensabile: “la individuazione di una procedura uniforme per la gestione delle fasi di emergenza e ricostruzione; l’applicazione del modello della “resilienza trasformativa” alla fase di ricostruzione, evitando di realizzarla senza tener conto di rischi, come fatto nel passato; la necessità di triplicare la capacità di spesa per interventi di prevenzione del rischio idrogeologico segnalati dalla Regioni e di competenza del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, portandola rapidamente a un miliardo di euro l’anno rispetto agli attuali 300 milioni”.

Senza dubbio condivisibile una simile proposta ma nel caso specifico mi sembra limitativo ricorrere a soluzioni o a proposte coerenti alla logica “meglio di niente”; mi sembra limitativo perché ancora una volta non si tiene conto di due gravi fattori:

Il tempo, sì la mancata azione decisa in un determinato momento storico e capace di rendere concreta, in tempi certi, ogni azione finalizzata alla messa in sicurezza, rappresenta la condizione chiave ed essenziale perché si passi dalle buone intenzioni alla misurabile azione di sicurezza e questo non può rispondere ad una azione frantumata e non definita nel tempo

La copertura certa delle risorse, come dicevo prima è davvero limitativo ritenere accettabile il passaggio da 300 milioni a 1 miliardo l’anno e, cosa ancora più grave, non può una simile esigenza essere legata ad un impegno annuale da inserire nella Legge di Stabilità. Occorre, invece, ricorrere ad una norma che assegni una quota fissa del Prodotto Interno Lordo (una soglia tra il 2,5% e il 3,5%) per dare garanzia concreta nel tempo di una simile copertura finanziaria. Questa è una proposta che ripeto da sempre ed è una soluzione adottata in molti Paesi della Unione Europea

Ma per comprendere la urgenza e la dimensione della reale emergenza sono utili i seguenti dati che, proprio ultimamente, sono stati pubblicati dopo approfonditi aggiornamenti:

Il 93,9% dei Comuni italiani è a rischio frane

Sono vulnerabili per rischio frane almeno 1,3 milioni di abitanti

Sono vulnerabili per rischio alluvioni 6,8 milioni di abitanti

Ricordo che questa grave criticità è affrontata da ben sette Dicasteri che, tra l’altro garantiscono in modo frantumato e privo di organicità distinte coperture finanziarie. Cioè affrontiamo queste emergenze e queste calamità senza ricorrere ad una governance unica.

Quindi nel Documento di Economia e Finanza (DEF) che il Governo dovrà presentare al Parlamento il prossimo 15 aprile spero che ci siano non annunci o impegni generici ma ci sia la piena condivisione su una simile linea strategica.

Sono sicuro che dopo queste mie considerazioni ci saranno le solite controdeduzioni basate su un ripetitivo approccio concettuale e cioè: se questa emergenza ricopre un ruolo prioritario non avendo risorse adeguate perché il Governo non pensa di adottare solo un simile Piano senza pensare ad opere infrastrutturali come l’alta velocità ferroviaria o il Ponte sullo Stretto di Messina?

È una osservazione ed una critica che considero ingenua ed al tempo stesso priva di motivazioni in quanto:

La realizzazione di una nuova infrastruttura (strade, ferrovie, porti, ponti, gallerie, ecc.) è sempre una occasione per la messa in sicurezza di una rilevante parte del territorio interessato alla attuazione dell’intervento stesso

La messa in sicurezza conserva il nostro territorio ed è quindi già un arricchimento economico del patrimonio pubblico ma non si configura come una crescita organica ed immediata del Prodotto Interno Lordo

Una nuova infrastruttura invece è, a tutti gli effetti, un motore della crescita del PIL e consente un ridimensionamento del danno che la nostra offerta infrastrutturale produce nei processi logistici che interessano il Paese; un danno che nel 2022 ha superato la soglia di 93 miliardi di euro (Ricerca Divulga)

VERSO UN PIANO NAZIONALE DI GESTIONE DELLE ACQUE DIMENTICANDO CHE NEL 2001 FU DEFINITO ED AVVIATO A REALIZZAZIONE UN APPOSITO PIANO PER IL MEZZOGIORNO

Forse è arrivato il momento per fare il punto su una grave emergenza che il Paese, insieme a tante altre emergenze, vive praticamente da sempre: mi riferisco alla esigenza di disporre di un Piano di Gestione delle Acque e forse sarebbe bene anche riaccendere la nostra memoria storica per ricordare una apposita azione portata avanti nel nostro Paese molti anni fa.

Correva l’anno 2000, si era, nel mese di maggio, insediato il Governo Berlusconi e Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti era stato nominato il Professor Pietro Lunardi. Presso il Ministero si avviò subito un incontro sistematico con tutte le Amministrazioni regionali per mettere a punto il Disegno di Legge definito poi “Legge Obiettivo” e al tempo stesso per redigere il Programma delle Infrastrutture Strategiche (PIS) che avrebbe fatto parte integrante di tale norma. Tra gli obiettivi strategici del Programma fu inserito quello relativo ad una delle più grandi emergenze del Sud: la disponibilità delle risorse idriche nel Mezzogiorno (ricordo che in alcuni Comuni della Sicilia l’acqua arrivava negli appartamenti solo due volte a settimana per quattro ore).

Ebbene, con le otto Regioni del Sud si definirono le opere più urgenti e si assegnarono le relative esigenze finanziarie, Il programma definito “Schemi Idrici del Sud” (vedi Tavola allegata) per un importo globale di 4.641.398.000 fu inserito nella Legge 443/2001 (Legge Obiettivo) ed avviato nel 2002 a realizzazione. Ricordo che alla fine del 2014 erano stati impegnati ed avviati a realizzazione interventi per circa 2 miliardi di euro.

Questa, ripeto, è una storia che abbiamo dimenticato e continuiamo a rincorrere Piani e Programmi senza cercare da un lato di completare quel quadro programmatico definito nel 2001 e dall’altro di ripetere, metodologicamente, per l’intero Paese la esperienza concreta e adeguatamente strutturata portata avanti d’intesa con le Regioni. Invece dal 2015 questa carica di pragmatismo e di volontà a dare consistenza tecnica e copertura finanziaria praticamente si è fermata. Ed è nata una vera corsa ad anticipare, solo mediaticamente, piani e programmi tutti mirati a costruire un Piano di gestione delle acque.

Se leggiamo la miriade di atti programmatici relativi ad una simile tematica troviamo un approccio davvero entusiasmante e, al tempo stesso, carico di convinta volontà a risolvere una simile criticità. Ad esempio in più atti possiamo leggere dichiarazioni che attestano: il Piano di gestione delle acque, oltre che un esempio di pianificazione strategica, che la Direttiva Europea 2000/60 prevede debba essere redatto e aggiornato ogni sei anni, rappresenta un’opportunità per coinvolgere i tanti portatori di interesse istituzionali, realtà associative e singoli cittadini, in un percorso di valorizzazione e tutela della risorsa idrica, dei nostri fiumi, al fine di migliorarne le condizioni di uso e la qualità, in un’ottica non di mera preservazione dell’esistente, bensì di fruizione sostenibile.

Però a questo entusiasmo corrisponde una deludente azione del Governo; a tale proposito è utile leggere un interessante intervento prodotto dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti nel 2018 in cui si precisava: “in Italia c’è disponibilità di acqua ma anche molta dispersione e un sottoutilizzo delle dighe, che rischiano di perdere progressivamente la propria capacità di invaso autorizzata e quindi di risorsa idrica al servizio della collettività. Di fronte a questo scenario il Ministero ha avviato un programma di interventi del valore economico pari a 294 milioni di euro per l’incremento delle condizioni di sicurezza di 101 dighe ad uso irriguo e/o potabile sparse sul territorio nazionale, di cui ben 79 si trovano al Sud”. Con la Legge di bilancio 2018 fu, inoltre, approvato il Piano nazionale invasi mirato al risparmio di acqua negli usi agricoli e civili nonché per interventi volti a contrastare le perdite delle reti degli acquedotti, con uno stanziamento di 50 milioni di euro annui dal 2018 al 2022.

Cioè il Governo del 2018, sì il Governo Conte 1,avviò la indifendibile fase degli annunci e degli impegni programmatici senza avviare concretamente nulla ma, cosa ancor più grave, invocando risorse ridicole quali i primi richiamati 50 milioni di euro; eppure se leggete le premesse degli ipotetici Piani scoprite che si parte da un dato confermato e più volte analizzato da più organismi: nel nostro Paese sono necessari investimenti per oltre 60 miliardi di euro nei prossimi anni (con uno sforzo di circa 5 miliardi all’anno, una volta a regime) per rinnovare le infrastrutture, adeguare gli impianti alle normative europee sull’inquinamento e ridurre le perdite.

Questi dati li conosciamo ormai tutti e sistematicamente vengono ripetuti sia nelle riunioni istituzionali dei vari Dicasteri competenti, sia nelle riunioni ufficiali della Conferenza Stato – Regioni.

Quindi è inutile continuare a raccontare quadri programmatici e ipotesi progettuali senza seguire l’azione organica e concreta seguita dalla Legge Obiettivo, in cui, almeno per il Mezzogiorno, si sono identificate le emergenze di prima fase, si sono condivisi gli atti programmatici con le Regioni nel rispetto dell’articolo 117 della Costituzione e si è garantita, solo per il Sud, una disponibilità di oltre 4,5 miliardi di euro. Ripeto deve cambiare integralmente l’approccio con questa grave emergenza e bisogna, una volta per tutte, smetterla di offrire assicurazioni sulla immediata attivazione delle scelte decise quando ormai da quasi dieci anni trattasi solo di impegni privi di consistenza procedurale e di copertura. Sappiamo che, se si seguisse lo stesso codice comportamentale seguito per le otto Regioni del Paese, scopriremmo che le esigenze finanziarie necessarie supererebbero la soglia finanziaria di 12 miliardi di euro e, come ormai ripeto sistematicamente, se si vuole davvero dare concreta attuazione ad un misurabile e concreto Piano di gestione delle acque diventa obbligatorio inserire, nella prossima Legge di Stabilità, una norma che assicuri l’utilizzo di una percentuale fissa del PIL per realizzare il quadro degli interventi inseriti nell’apposito Piano di gestione delle acque.

Nel 2001 le Regioni, nella Conferenza Stato Regioni, dissero chiaramente, attraverso lo strumento della Intesa Quadro Stato Regione, che un simile modello procedurale conteneva tutte le clausole per superare possibili ripensamenti o il rinvio nella cantierizzazione delle scelte.

Per cui avendo, praticamente, dopo 23 anni, riscoperto questa esperienza ed avendo preso atto, ancora una volta, della follia nella mancata continuità realizzativa, spero che il Governo ed il Parlamento:

Si impegnino a riattivare la operazione avviate e realizzata solo parzialmente

Si impegnino a inserire nella Legge di Stabilità 2025 la norma che assicuri una quota fissa del PIL per la copertura delle opere del Piano di gestione delle acque

Si impegnino ad inserire sin dal Documento di Economia e Finanza da sottoporre al Parlamento il prossimo 15 aprile una chiara e motivata proposta da cui si evincano non genericamente ma in modo mirato le finalità e le coperture del Piano

Spero che questo Governo metta fine alla fase delle promesse, alla fase degli annunci, alla fase delle edizioni ormai quasi mensili dei Contratti di Programma; con la esigenza di risorse idriche per un Paese industrialmente avanzato come il nostro e con una agricoltura determinante nella crescita socio economica non si scherza perché una possibile rischiosa miopia produrrebbe un danno irreversibile al nostro sistema socio economico.

STIAMO CAPENDO E MISURANDO IN RITARDO COSA SIA LA CRISI NEL MAR ROSSO. MOLTI PENSAVANO CHE TUTTO FINISSE IN POCO TEMPO: NON CONOSCEVANO LA STORIA DEGLI HOUTHI

Non chiedo assolutamente riconoscimenti per la serie di denunce e di allarmi fatti attraverso le mie note ormai da circa due mesi relative ai danni generati dagli attacchi Houthi sul Mar Rosso; le mie erano anticipazioni banali che avremmo capito solo dopo. Oggi però finalmente quelle che inizialmente qualcuno ha definito “gratuiti allarmismi”, “denunce di un fenomeno passeggero e superabile nell’arco di poche settimane”, trovano un riscontro nelle dichiarazioni prodotte dal Presidente della Associazione logistica dell’intermodalità sostenibile (ALIS) Guido Grimaldi che nella giornata di Let Expo (la più grande rassegna del trasporto e della logistica sostenibili) in corso di svolgimento a Verona, ha dichiarato: “Il settore della logistica si trova di fronte a cambiamenti epocali causati soprattutto da tensioni internazionali come la crisi del Mar Rosso che minaccia i flussi commerciali mondiali. Consideriamo ad esempio che gli scambi Italia – Cina corrispondono a 154 miliardi di euro pari al 40% del totale dell’import – export che passa per il canale di Suez. La scelta di circumnavigare l’Africa, giungendo allo Stretto di Gibilterra e quindi lontano dai porti italiani, si sta traducendo in aumento dei giorni di navigazione, almeno tra i 10 e i 15 giorni in una crescita dei noli marittimi del 200% rispetto al 2023; in aumento delle polizze assicurative, spesso decuplicate, con extra – costi per il singolo passaggio di una nave media di 400 mila euro; in una grande perdita di traffici in Italia in favore dei porti del Nord Europa, come Anversa e Rotterdam. A Trieste, nel primo bimestre 2024, il traffico dei contenitori è calato del 25% sull’anno precedente e a Livorno del 35%”.

Eppure, sempre secondo Grimaldi prima della crisi nel Mar Rosso, cioè nel 2023, erano stati raggiunti risultati davvero encomiabili nella integrazione tra il trasporto marittimo ed il trasporto ferroviario abbattendo in tal modo in modo sostanziale le emissioni climalteranti prodotte dal trasporto su strada; in particolare grazie ad ALIS attraverso al sistema “mare – ferro” nel 2023 è stato possibile raggiungere i seguenti risultati: 6 milioni di camion sottratti dalle autostrade italiane, 143 milioni di tonnellate di merci trasferite dalle autostrade verso la intermodalità, attraverso i porti e gli interporti  italiani, e 5,4 milioni di tonnellate di CO2 abbattute.

Cioè questi dati denunciano chiaramente che il danno creato dalla emergenza “Mar Rosso” colpisce in modo davvero grave la nostra portualità e la nostra offerta ferroviaria e la colpisce in un momento in cui si stava confermando come riferimento chiave per la logistica del nostro Paese proprio il ricorso all’uso combinato tra il trasporto marittimo e il traporto terrestre attraverso la nostra rete ferroviaria. Invece ora dobbiamo, purtroppo, assistere ad un trasferimento di enormi quantità di merci verso la portualità del Nord Europa e dopo gli sbarchi in tali impianti portuali assisteremo ad una canalizzazione delle merci su reti stradali per trasferirle nei nostri HUB logistici. In realtà questo grave atto bellico nel Mar Rosso sta praticamente cambiando itinerari logistici che ormai erano diventati il riferimento chiave dell’intero teatro economico rappresentato dal bacino del Mediterraneo.

Più volte avevo infatti ricordato un dato altamente significativo: nel solo uno per cento dell’intero specchio acquifero del pianeta si movimenta oltre il 22% delle merci e questo dato in realtà testimoniava non solo il ruolo e la funzione del bacino del Mediterraneo ma anche i vincoli obbligati e i relativi vantaggi che il transito garantiva alla nostra portualità ed a quella dei porti dell’intero bacino e, cosa ancor più grave, rappresentava per un Paese come l’Egitto un introito determinante per la sua sopravvivenza economica. Ora dobbiamo avere il coraggio di ammettere che questo preoccupante fenomeno bellico non potrà trovare una soluzione in breve tempo e, per capire tutto questo, penso sia utile capire quale sia il livello organizzativo, strutturale di tale folle schieramento bellico

La guerra è tra gli Houthi, gruppo di ribelli sciiti sostenuti e finanziati dall’Iran, e il governo yemenita riconosciuto da buona parte della comunità internazionale, che è invece appoggiato da una coalizione di Paesi guidata dall’Arabia Saudita.

Oggi i ribelli Houthi controllano il nord ovest del Paese, compresa la capitale Sana’a, e gran parte dei territori costieri sul Mar Rosso: sono più influenti e potenti del governo yemenita, che ha sede ad Aden, nel sud ovest, e che si sta dimostrando incapace di fermare gli attacchi compiuti dagli Houthi contro le navi cargo nel Mar Rosso. In Yemen ci sono inoltre diverse basi di al Qaida organizzazione terroristica attiva soprattutto nel sud e nemica sia dei ribelli Houthi che del governo yemenita. La guerra civile in Yemen iniziò nel 2014, quando gli Houthi, concentrati soprattutto nel nord del Paese, cominciarono a conquistare territori verso sud fino ad arrivare alla capitale Sana’a, dove costrinsero il presidente Abd Rabbu Mansur Hadi a fuggire prima nella città meridionale di Aden e poi in Arabia Saudita. A quel punto l’Arabia Saudita, per non dover gestire alle sue frontiere la presenza di un gruppo sciita alleato con l’Iran, suo storico nemico, avviò una massiccia campagna di bombardamenti contro gli Houthi, proseguita poi a fasi alterne per diversi anni.

Lo Yemen era già da tempo uno dei Paesi più poveri del Medio Oriente, era considerato uno “Stato fallito”, aveva un’amministrazione pubblica corrotta e inefficiente e un governo incapace di controllare il territorio e mantenerlo sicuro.

La situazione in Yemen degenerò ben presto in una guerra civile, con l’Arabia Saudita a sostenere le forze del governo yemenita e l’Iran gli Houthi, armandoli e addestrandoli: anche per questo molti analisti definirono quella in Yemen una “guerra per procura”, in cui due stati rivali si combattono indirettamente in un territorio terzo. Per l’Arabia Saudita le cose si complicarono ulteriormente nel 2019, quando gli Emirati Arabi Uniti, preziosissimi alleati nella guerra, si ritirarono dalla coalizione. 

Porti e aeroporti vennero bloccati, ampie porzioni del Paese vennero bombardate e distrutte e cominciò un’epidemia di colera che causò la morte di migliaia di persone. La guerra provocò una gravissima crisi umanitaria, con oltre 350mila morti e milioni di persone che ancora oggi soffrono la fame e hanno condizioni di vita estremamente precarie: ancora all’inizio del 2023, prima della guerra nella Striscia di Gaza, l’ONU definiva la crisi umanitaria in Yemen come la più grave del mondo.

Mi sono dilungato forse troppo nella descrizione del grave “fenomeno Houthi” ma l’ho fatto per chiarire, una volta per tutte, che le gratuite illusioni di un superamento a breve del conflitto, di un ritorno a breve della fluidità dei transiti lungo Suez, del ritorno alla crescita della movimentazione dei nostri porti, al rilancio di quella intermodalità dichiarata nell’intervento del Presidente Grimaldi, purtroppo sono solo ipotesi che non trovano alcuna certezza in un possibile ritorno alla normalità.  Ed allora prepariamoci, come da me anticipato poche settimane fa, a:

Chiedere alla Unione Europea insieme a tutti i porti comunitari del Mediterraneo un apposito Fondo mirato ad abbattere i costi sostenuti dalle compagnie marittime obbligate ad effettuare il periplo del continente africano; in particolare un incentivo per le navi che entrano attraverso Gibilterra nel Mediterraneo

Costruire apposite alleanze gestionali tra tutti i porti comunitari del Mediterraneo in modo da superare insieme, attraverso una valida ottimizzazione dei costi, la offerta portuale e le possibili forme di intermodalità

Rimanere “freddi”, cioè continuare a sottovalutare il fenomeno non solo è rischioso ma ho paura che altri Paesi come la Spagna e la Grecia, titolari di porti come Algeciras, Valentia e Pireo, stiano già trattando con le compagnie che gestiscono la movimentazione container e stiano, in modo autonomo, offrendo condizioni vantaggiose in caso di ingresso nel Mediterraneo. Non mi risulta che si stia facendo qualcosa da parte nostra; quando lo capiremo sarebbe sempre troppo tardi.

CINQUE AREE TEMATICHE NON FACILI CHE L’ATTUALE GOVERNO DOVRÀ AFFRONTARE NEI PROSSIMI ANNI DI LEGISLATURA

Dopo un anno e mezzo di Governo e dopo i risultati raggiunti su diverse emergenze quali lo stato preoccupante dell’avanzamento del PNRR, penso sia arrivato il momento per esaminare e, se necessario, anticipare il superamento di alcune criticità che o sono già evidenti o esploderanno nei prossimi mesi.

1. Sicuramente la prima emergenza è quella legata al rapporto tra il nostro Paese e la nuova Unione Europea. Ho infatti ricordato più volte che a giugno non eleggeremo parlamentari europei con il ruolo di essere semplici rappresentanti del nostro Paese in Europa ma eleggeremo parlamentari che, in base ad una riforma già pronta e che sarà varata entro il corrente anno, decideranno a maggioranza determinate Leggi, determinate direttive e la Commissione europea approverà delle scelte che saranno valide solo dopo l’approvazione del Parlamento. Cioè forse non ce ne siamo ancora resi conto ma questa volta la Unione Europea approva e rende operative norme che noi per anni abbiamo preferito solo richiamare come obiettivi da traguardare. Mi riferisco solo a titolo di esempio:

Alla riforma portuale ed interportuale (una riforma che la Unione Europea affronterà sicuramente dando particolare importanza e ruolo alla portualità del Nord Europa; una riforma che subiremo passivamente vista l’assenza di un impegno nazionale a produrre un nuovo strumento)

Alla costruzione organica e supportata da adeguate risorse delle Zone Economiche Speciali (ZES)

Alla concreta attuazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) in un’ottica non nazionale ma comunitaria

Alla rilettura motivata delle soglie socio economiche delle Regioni ubicate all’interno dell’Obiettivo Uno

Alla esclusione dal debito pubblico, di ogni singolo Stato della Unione, degli interventi infrastrutturali ubicati sulle Reti TEN – T

Alla istituzione di un nuovo PNRR dedicato solo alla messa in sicurezza del territorio dell’intero sistema comunitario

Questo sintetico elenco di azioni, non avendo il nostro Paese finora fatto nulla o poco per riportarlo all’interno di un’azione di Governo, sarà sicuramente subito programmaticamente, cioè non avendo affrontato queste emergenze e queste criticità da anni, ricordo che la riforma portuale è del 1994 (cioè di 30 anni fa), inseguiremo le proposte della Unione Europea e, in molti casi, le subiremo

2. Un’altra emergenza che sarà necessario affrontare da subito, e forse il Documento di Economia e Finanza (DEF) dovrebbe già darne una prima anticipazione, è la copertura delle opere che erano nel PNRR ma che proprio in questi mesi, dopo una attenta verifica della loro impossibilità a rispettare la scadenza del 30 giugno 2026 sono state trasferite nel bilancio ordinario dello Stato. Il quadro degli interventi non è ancora chiaro e non è, a mio avviso, definitivo, tuttavia siamo in grado di stimare, per tali iterventi, un valore minimo di 15 – 20 miliardi di euro. È una cifra affatto modesta se si tiene conto che la Legge di Stabilità 2025 parte già con una penalizzazione di 12 miliardi di euro relativi al nuovo vincolo imposto dal Patto di Stabilità della Unione Europea.

Forse di fronte ad un simile difficile equilibrio finanziario il Governo farebbe bene anche ad intravvedere un possibile coinvolgimento del privato o una rilettura delle logiche con cui si è deciso di rendere gratuito il transito su assi stradali, con caratteristiche autostradali, di proprietà dell’ANAS. Lo so pedaggiare la Salerno – Reggio Calabria o il collegamento tra il Gran Raccordo Anulare di Roma e l’aeroporto di Fiumicino, è un atto impopolare tuttavia ricordo che una simile scelta non è assolutamente paragonabile ad una “tassa” ma è solo il pagamento della qualità di un servizio.

3. Inoltre sarà bene prepararsi anche ad un ritorno della crisi dei consumi. Non ce ne siamo ancora resi conto ma dopo la seconda guerra mondiale mai l’intera economia del pianeta aveva vissuto contestualmente una serie di crisi belliche così forti e così determinanti per la economia ed in particolare sul teatro economico ubicato nel bacino del Mediterraneo. Il naturale aumento dei prezzi dei prodotti causato dalle guerre in Ucraina, in Israele e nel Mar Rosso porterà automaticamente ad un forte contenimento dei consumi. Il mondo dell’autotrasporto (primo settore in grado, da sempre, di preallertare i fenomeni macroeconomici) ha proprio pochi giorni fa lanciato primi segnali in tal senso ed un simile crollo penso debba anche essere attentamente monitorato perché sarebbe bene non illudersi di crescite del PIL poco difendibili. Molti diranno: ma oggi l’economia del nostro Paese vive un momento positivo e ciò è vero, tuttavia i fenomeni al contorno della nostra economia non ci danno un’adeguata tranquillità

4. Ancora, come anticipato pochi giorni fa, non possiamo continuare ad avere sistematiche criticità nei transiti lungo l’arco alpino e ciò non solo con l’Austria ma anche con gli altri Paesi. È vero nel caso degli altri transiti le motivazioni sono legate ad eventi manutentori o ad incidenti mentre nel caso dell’Austria è solo un fatto “amministrativo”; tuttavia è impensabile che la Unione Europea non affronti questo vincolo fisico che assicura il transito a circa 41 milioni di tonnellate di prodotti all’anno, è davvero preoccupante che la Unione Europea non prenda due immediate decisioni:

Istituzione di un Commissario della Unione Europea con la missione di garantire la fluidità dei transiti lungo l’intero arco

Istituzione di un Fondo comunitario per coprire gli eventuali danni subiti dai vari Paesi generati dal rallentamento o dal blocco di alcuni valichi

5. Infine, in un Paese industrialmente avanzato, in un Paese membro del G7 quindi tra i Paesi leader dell’economia mondiale, è davvero sconcertante che la emergenza del centro siderurgico di Taranto e della capacità di produrre acciaio all’interno del Paese sia stata vissuta e sia vissuta come un caso settoriale, come una emergenza di un ambito territoriale del Paese. Questo Governo ha impiegato 16 mesi per assumere una decisone che andava assunta un’ona dopo il suo insediamento ed ancora siamo alla fase iniziale, cioè alla felice fase di una valida terna di Commissari ma ora occorre definire con quali risorse ridare funzionalità all’impianto, con quali risorse garantire l’abbattimento dell’impatto ambientale, con quali risorse ricostruire condizioni di crescita non solo nella città di Taranto ma di un hinterland che abbraccia l’intero Salento. E questa è una grave emergenza perché coinvolge oltre 20.000 persone ormai senza lavoro; e questa è una emergenza che fra tre anni, alla fine della Legislatura, peserà moltissimo sul bilancio dell’operato di questo Governo e di questa maggioranza parlamentare e peserà non solo a livello regionale ma peserà sull’intero consenso nazionale

PER ANNI ABBIAMO SOTTOVALUTATO IL TRASPORTO PUBBLICO LOCALE. ABBIAMO AUMENTATO LA DISTANZA TRA NORD E SUD.  ABBIAMO INCREMENTATO IL COSTO DA INQUINAMENTO NELLE CITTÀ. ABBIAMO RESO INGESTIBILE IL BILANCIO DELLE FAMIGLIE

Prima o poi doveva esplodere, mi riferisco alla emergenza nella copertura delle risorse necessarie per assicurare un servizio adeguato nel trasporto pubblico locale; di seguito elencherò i dati ormai davvero tragici che i vari gestori locali di tale servizio denunciano ormai da un numero rilevante di anni e la completa assenza di risposte da parte dell’organo centrale. Ricordo in proposito solo un dato che riguarda essenzialmente il comparto delle infrastrutture nelle aree metropolitane: annualmente il Fondo per il trasporto pubblico locale assicura uno stanziamento di circa 5 miliardi di euro e tale voce tiene conto in modo limitato della parte finalizzata agli investimenti (realizzazione di reti e acquisto di mezzi); in realtà la copertura finanziaria è legata ad una apposita legge che annualmente destina delle risorse per la “gestione e gli investimenti” nella offerta di trasporto pubblico locale.

Ebbene, dal 2001 al 2014, grazie alla Legge Obiettivo, e non alla norma che assicura la copertura del prima richiamato Fondo, è stato possibile passare da un numero di chilometri di reti metropolitane pari a circa 54 Km ad oltre 256 Km; ricordo solo alcuni di tali interventi: le linee M1 ed M2 a Torino, la M4 e la M5 a Milano, la metropolitana di Brescia, la Linea C a Roma, la Linea 1 e la Linea 6 a Napoli.

Ricordo che l’indagine conoscitiva sul trasporto pubblico locale svolta dalla IX Commissione Trasporti della Camera a partire dal 2013, ha ben evidenziato la complessità dell’impianto normativo in materia di trasporto pubblico locale, sia con riferimento alle modalità di assegnazione dei servizi di trasporto pubblico locale sia con riferimento al finanziamento di tali attività. L’indagine è stata deliberata il 19 giugno 2013 ed è terminata l’8 aprile 2014 con l’approvazione di un documento conclusivo. 

Con riferimento alla disciplina nazionale del settore, il principale punto di riferimento normativo rimane la riforma operata con il decreto legislativo n. 422/1997, che ha trasferito la competenza in materia di trasporto pubblico locale alle Regioni. La materia è stata poi riconosciuta anche dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 222/2005, come competenza residuale delle Regioni. Tra gli altri punti che qualificano la riforma merita richiamare: la distinzione tra funzioni di regolazione e funzioni di gestione operativa dei servizi; la trasformazione obbligatoria delle aziende speciali in società di capitali; l’introduzione del contratto di servizio quale strumento di regolazione del rapporto tra Ente locale e gestori del servizio di trasporto locale; una graduale copertura dei costi del servizio mediante tariffa, con un progressivo incremento del rapporto ricavi da traffico/costi fino al 35 per cento.

Nel decreto legislativo n. 422/1997 l’articolo 18 prevedeva poi che le modalità di affidamento del servizio venissero definite con leggi regionali che avrebbero però dovuto rispettare alcuni principi tra i quali l’obbligo di svolgimento di una gara e la determinazione delle tariffe con l’applicazione del metodo del price Cap (metodo di regolazione dei prezzi volto ad associare il tasso di crescita delle tariffe di un servizio pubblico al rispetto di determinati vincoli in modo da favorire l’innovazione di prodotto). Ho voluto sinteticamente elencare questa storia procedurale sia per stigmatizzare una data: il 1997 (siamo cioè vicini ai trenta anni), sia per mettere in evidenza il passaggio alla competenza regionale di una tematica che, sempre a mio avviso, ha una rilevanza solo “nazionale”.

Sì siamo fermi ad una competenza ormai consolidata delle Regioni e questo, che ritengo un limite, emergerà, come fattore negativo, quando decideremo di dare vita ad un’azione organica di costruzione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP); cioè quando, effettuando le distanze tra i livelli di servizio offerti dalle realtà urbane del Sud e quelle del Centro Nord scopriremo che le distanze tra la qualità dei servizi, le distanze tra il numero di corse garantite all’interno delle aree urbane, le distanze nei sevizi extra urbani, ecc. sono enormi e sono dati ormai oggettivi che emergono da una corretta comparazione degli investimenti sostanziali, sia nelle opere infrastrutturali, sia in quelle legate alla disponibilità di adeguati mezzi di trasporto.  

Proprio pochi giorni fa abbiamo letto una dichiarazione dell’ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) da cui emerge che in realtà l’Italia del “trasporto pubblico locale” si divide in due parti: da un lato le Regioni e gli Enti locali che vorrebbero più risorse in nome dei maggiori investimenti effettuati come nel caso di Milano, dall’altro le realtà più svantaggiate, prevalentemente al Sud, che ritengono che riducendo le risorse la situazione potrebbe ulteriormente peggiorare. Poi grazie al Presidente della Conferenza Stato Regioni Massimiliano Fedriga, soprattutto alla sua capacità di mediazione, si è riusciti a far approvare una risoluzione della Commissione trasporti della Camera, votata dalla maggioranza e dalla opposizione, in cui impegna il Governo a travasare nell’apposito Fondo sul trasporto pubblico più risorse. In particolare nella risoluzione si precisa: “L’insufficienza dei trasferimenti pubblici si è tradotta negli anni in una affannosa copertura delle spese correnti legate alla gestione dei contratti di servizio a scapito degli investimenti”. Tra l’altro su questa particolare area tematica, cioè tra le spese di esercizio e spese per investimenti infrastrutturali, assistiamo ormai da anni ad un assurdo paradosso: nelle Regioni del Nord dove si sono realizzati rilevanti investimenti in reti metropolitane (negli ultimi dieci anni Milano si è arricchita di due metropolitane) sono aumentati i numeri di chilometri serviti ma le risorse riconosciute dal Fondo sono rimaste sempre le stesse. In realtà il Fondo continua ad erogare i finanziamenti alle Regioni sulla base di una vecchia tabella che fotografa la spesa storica.

Ho appreso ultimamente che l’Istituto di ricerca Isfort ha pubblicato una ricerca sulla mobilità in Italia in cui denuncia la mancata industrializzazione; in particolare un dato fondamentale è l’indicatore della elasticità del trasporto pubblico locale rispetto al PIL che è determinato dalla desiderabilità del bene pubblico e quindi dalle scelte collettive in termine di politiche pubbliche e allocazione dei fondi. Più questo dato è al di sopra della unità più il sistema è al riparo delle tempeste economiche come l’inflazione, la esplosione dei prezzi dell’energia ed il calo della domanda. In proposito la Germania registra una elasticità di 1,76 dimostrando di aver investito risorse rilevanti anche nel trasporto pubblico locale; il nostro indicatore è fermo alla soglia di 0,40.

Potrei continuare ad elencare i livelli di emergenza in cui vivono le varie imprese che assicurano la mobilità nelle nostre realtà urbane e nei servizi pendolari, ma mi convinco sempre più che non sia solo la limitatezza delle risorse del Fondo; a detta di tutte le varie Aziende occorrerebbe una immediata erogazione di circa 1,6 miliardi di euro e, per assurdo, anche se si trovassero tali risorse già nell’assestamento di bilancio, a mio avviso, non cambierebbe nulla nell’assurdo sistema che da tanti anni cerchiamo di affrontare, cerchiamo di risolvere ma che rimane, purtroppo, sempre tutto nell’ambito delle buone intenzioni o in quello degli ordini del giorno del Parlamento.

Io tento di prospettare una ipotesi: questo Governo non può, nei prossimi tre anni che lo separano dalla fine della Legislatura, non affrontare questa grave emergenza e, soprattutto, dovrà dare avvio ad una operazione difficile ma obbligata quale quella della omogeneità nel Paese dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP); in questa operazione dovrebbe, per un arco temporale di tre anni, avocare a se, cioè a livello centrale, le competenze che oggi sono, per tali funzioni, destinate alle Regioni; so bene che una simile decisione potrebbe essere impugnata per incostituzionalità ma penso che trattandosi di una operazione limitata nel tempo non dovrebbe contrastare l’articolo 117 della Costituzione. Non ritengo infatti che questa, insisto, non facile operazione possa essere gestita in modo frantumato, possa essere lasciata alla capacità dell’organo locale; i Livelli Essenziali delle Prestazioni non possono essere delegati a logiche localistiche o ad approcci legati a specificità territoriali.