LA GESTIONE AUTONOMA DEI PORTI UNA CONDIZIONE OBBLIGATA PER LA CRESCITA

Ogni realtà portuale ha sempre cercato di raggiungere l’obiettivo della cosiddetta “autonomia gestionale”, dal 1994, data in cui fu approvata la Legge di riforma del sistema portuale del Paese. Un obiettivo che nella Legge di riforma era garantito attraverso l’articolo 6 commi 2 e 3 in cui veniva ribadito che “L’autorità portuale ha personalità giuridica di diritto pubblico ed è dotata di autonomia di bilancio e finanziaria” e l’articolo 18 bis intitolato proprio “Autonomia finanziaria delle autorità portuali”, sebbene nei fatti tali norme non sono mai state applicate nel rispetto di una vera e corretta “autonomia gestionale”. Nel Decreto Legislativo 169/2016, ultimo provvedimento che ha riformato il comparto portuale, all’articolo 11 compare un tentativo di autonomia gestionale, ma trattasi di un cenno completamente inutile perché non rende possibile nessuna concreta attività autonoma. C’è da chiedersi, allora, in cosa consistesse ed in cosa consiste questa “autonomia gestionale”? Molti del settore l’hanno identificata come un rischioso strumento mirato, nel migliore dei casi, alla crescita di un porto a danno di un altro, nel peggiore dei casi ad una incontrollabile gestione del potere.

Questa lettura l’ho sempre ritenuta miope e, perfino, incomprensibile, ad esempio il gestore del porto di Rotterdam è un manager che gestisce l’impianto portuale cercando di ottimizzare al massimo le potenzialità del porto ricorrendo a tutte le possibili logiche di mercato, firmando anche accordi con porti dell’Estonia o della Francia e partecipando alla gestione di altri impianti logistici portuali e interportuali addirittura esterni all’ambito nazionale. Questa eccessiva autonomia potrebbe generare contrasti con la strategia nazionale? Non incorro nella tentazione della facile e, al tempo stesso, infelice battuta: “nel caso italiano quale strategia”, ma mi soffermo sul fatto che anche questo timore dimentica la peculiarità di una realtà portuale. A tale proposito è opportuno che ci si convinca di un fatto: i porti, almeno quelli con caratteristiche dimensionali ed infrastrutturali di livello elevato, non sono siti di una Regione o di un Paese, ma sono ambiti geografici che diventano geo-economici se superano proprio la dimensione localistica, la dimensione “provinciale” e si collocano in un’area in cui non hanno senso logiche estranee al “libero mercato”, come: la solidarietà con altri ambiti portuali limitrofi, il mantenimento di soglie della offerta di trasporto per non incrinare la crescita di ambiti portuali ubicati nello stesso Paese, il blocco di forme di concorrenzialità eccessiva con ambiti dello stesso sistema, ecc.

L’atto più dirigistico che il Governo potesse fare è stato, a parer mio, quello di identificare le quindici Autorità di sistema portuale (il Piano Generale dei Trasporti nel 1986 ne aveva indicati solo sette), di contro la trasformazione di tali ambiti geografici in realtà geo-economiche, in sedi delle convenienze e dello sviluppo, spetta al gestore del sistema, poiché in realtà l’atto dirigistico è solo la identificazione territoriale il resto compete al gestore dell’impianto.

Non mi meraviglierei affatto se, ad esempio in un futuro prossimo, il Presidente dell’Autorità Portuale dell’Adriatico Meridionale (i cui porti chiave sono quelli di Bari e di Brindisi) entrasse direttamente nella gestione dei porti di Bar in Montenegro e di Durazzo in Albania e una simile scelta la facesse non ricorrendo a gratuiti ed inutili memorandum of under standing, ma acquistando direttamente azioni delle società preposte alla gestione di tali porti.

Il liberismo nella portualità dovrebbe essere una condizione obbligata e l’assenza di una vera e misurabile “autonomia gestionale” azzera proprio la categoria del liberismo e relega la economia di un porto, nel migliore dei casi, ai fenomeni congiunturali classici: anni di crescita, anni di crisi, anni di stasi.

In fondo Genova, Livorno e Trieste rimangono, in termini commerciali, i riferimenti portuali storici del nostro Paese proprio perché in passato hanno vissuto le condizioni tipiche di un “libero mercato”.

Convinciamoci, quindi, che l’autonomia gestionale di un impianto portuale è una condizione obbligata per il rilancio concreto della offerta portuale dell’intero Paese.

Queste ipotesi, queste indicazioni sono da considerarsi antitetiche a ciò che spesso chiamiamo “programmazione organica”? Ritengo proprio di no; lo Stato deve solo garantire infrastrutture capaci di fare interagire il singolo sistema con le realtà produttive e logistiche retroportuali, lo Stato deve solo assicurare la fluidità dei transiti e annullare le penalizzazioni dell’ultimo miglio, il resto deve competere alla intelligenza del gestore autonomo del sistema portuale, una intelligenza che non può essere frutto di logiche di schieramento politico, ma solo di misurabile capacità professionale.

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