LA LEGGE OBIETTIVO DA ALCUNI DEFINITA: UNA LEGGE CRIMINOGENA

I cicli economici e politici ed i conseguenti opportunismi sono, in Italia, una rappresentazione plastica di quale sia l’attenzione al valore comune, di quale sia il bene economico da tutelare qualunque sia il governo in carica. È il caso delle scelte in materia di programmazione, pianificazione e attuazione che interessano  il ciclo degli investimenti in opere pubbliche. Il timore di un governo populista, un governo contrario all’attuazione ed agli investimenti pubblici, fa emergere immediatamente il timore di chi con i lavori pubblici vive: l’emersione della tutela legittima agli interessi sia delle  imprese di costruzione che delle sue associazioni di categoria ma anche del cosiddetto giornalismo economico, si fa forte nel momento in cui all’orizzonte si profilano altre interpretazioni di quel senso di bene collettivo, che non contemplano gli investimenti pubblici e quindi gli appalti di costruzione in infrastrutture.

A partire dal 1986, data del primo Piano programma in tema di trasporti e programmazione delle infrastrutture che questo Paese si è dato, fino ad ora con il Programma “Connettere l’Italia” del Ministro Delrio, si sono alternate due  contrapposte visioni del modo di fare economia attraverso l’immissione nel circuito economico di quote di investimento pubbliche: una, la prima, più riformista con obiettivi macroeconomici di ampio respiro, caratterizzata da precisi  scenari economici che avevano l’ardire di rispondere alla domanda “dove vorremmo essere da qui a 20 anni e di interrogarsi su quali fossero i principi fondanti dei nostri nazionali processi di sviluppo economico”; capofila di questa profonda trasformazione economica e sociale è stato Claudio Signorile, guarda caso un politico del Sud, già ministro per il mezzogiorno; l’altra, politicamente più opportunista nel breve periodo, ha pensato che l’emersione dei servizi – tutti i servizi compresi quelli privati delle società di ingegneria – dovesse  essere il meccanismo su cui insistere per ottenere sviluppo. La prima pensava che senza grandi investimenti infrastrutturali non fosse possibile modificare la struttura di erogazione dei servizi nel paese perché non erano possibili neanche le piccole opere, la seconda riteneva che la modifica dell’assetto dei servizi fosse possibile senza grandi investimenti. In questi quasi 40 anni di programmazione e di pianificazione, le infrastrutture o meglio gli oggetti infrastrutturali considerati invarianti, la strada statale jonica, cosi come anche il sistema AV Brescia Verona, sono rimasti gli stessi: le due “scuole” di pensiero su questo non hanno mai avuto dubbi, solo che le modalità attraverso le quali raggiungere gli obiettivi era ed è diversa.  Probabilmente a causa di una più solida cultura economica alle spalle ed una migliore conoscenza dei meccanismi macro e microeconomici connessi allo sviluppo economico la prima scuola di pensiero  ha avuto l’intuizione di organizzare anche la “cassetta degli attrezzi”, il meccanismo giuridico, economico, finanziario, procedurale, amministrativo, autorizzativo connesso alla fase che va oltre l’idea: quella dell’attuazione. Processo che ha avuto come naturale evoluzione storica la Legge Obiettivo, una legge definita criminogena solo perché in grado di mettere in fila responsabilità, procedure, Enti, finanziamenti ed impatti controllati sul debito pubblico.

È proprio così che è nata l’emergenza, sollecitata e propagandata anche dal giornalismo economico di casa nostra, di “fare presto”, di cambiare tutte le regole economiche tra cui quelle relative agli appalti con un nuovo codice, nella speranza di sostituire una classe dirigente senza averne una pronta a disposizione. Questa ambizione “ante grillina”, molto diffusa nel nostro Paese da troppo tempo, è la causa principale del decadimento del mercato degli appalti, della impossibilità oggi di trasformare in opportunità economiche quelli che a tutti gli effetti sono gli investimenti, cioè un sacrificio di risorse finanziarie oggi per ottenere benefici economici domani.

In questo arco temporale tra l’oggi ed il domani, l’ANCE ritiene che la causa dei ritardi sia il CIPE, sia la burocrazia connessa alla realizzazione delle opere e non il chiaro desiderio di una classe politica emergente di voler contare in un mercato degli appalti anche a costo di soffocarlo con nuove ed aggiuntive regole. Questo obiettivo non è stato raggiunto del tutto grazie al regime transitorio previsto all’articolo 216 del nuovo Codice degli Appalti, la stessa classe dirigente, infatti,   si rese conto che i nuovi processi autorizzativi avrebbero potuto bloccare definitivamente e da subito il mercato degli appalti, con un ritorno politico negativo ed impossibile da gestire. Far partire subito una riforma profonda del codice appalti avrebbe trovato, come poi è avvenuto, imprese impreparate a gestire il cambiamento, perché già ampiamente avviate in un ciclo negativo di sottocapitalizzazione per mancate escussioni di pagamenti ed avrebbe buttato alle ortiche anni di accumulazioni di capitale pubblico da destinare alle grandi opere.

Così la dissimulazione della realtà ha frainteso lo stato effettivo  della natura economica delle cose, ed ha prodotto, produce e, purtroppo, produrrà danni economici difficilmente recuperabili. sia nell’immediato che nel futuro, azzerando anche quanto di buono fa il CIPE, che non ha mai approvato i progetti, ma solo la localizzazione delle opere per effetto della volontà delle Regioni e la loro copertura finanziaria.

La vera vittima è il mercato degli appalti italiano e le imprese italiane a rischio di estinzione,  il nuovo codice l’arma del delitto, il mandante una politica di parte e miope.

In una democrazia ampia e rappresentativa come la nostra, il CIPE compie uno degli atti massimi di governo del territorio e le sue funzioni, oggi particolarmente svilite, permettono l’emersione delle scelte di impiego di fonti pubbliche che altrimenti rimarrebbero nelle segrete stanze dei bottoni.

Gli altri la chiamano burocrazia, ma la vera trasparenza democratica richiederebbe non una falsa urgenza nell’approvazione delle scelte, ma una sana e corretta verifica delle stesse.

 

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