Tra i limiti che le economie territoriali del nostro Paese vivono, alcuni di questi sono da attribuirsi a rallentamenti, farraginosità, inerzie strutturali che il più delle volte non sono neppure comprensibili.
Spesso succede che nuove procedure, come il “dibattito pubblico” o banali “analisi costi/benefici e costi/ricavi” siano accolte ed auspicate come azioni innovative credendo di poter determinare maggiori certezze nella scelta degli investimenti pubblici; mentre più banalmente offrono alla “casta” la possibilità di scegliere con logiche apparentemente democratiche. Nella realtà dei fatti e della operatività delle aziende, anche di quelle vigilate dallo Stato, tali obiettivi risultano essere pura illusione, soprattutto per la non credibilità di alcune scelte. Come in un classico film di fantascienza, mondi paralleli, idee parallele, razze aliene vivono contestualmente in sistemi che rimangono paralleli, destinati a non incontrarsi mai,; è il caso delle regole stabilite per il “dibattito pubblico”, fissate da un recente Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri appena pubblicato, e delle più ampie regole riferite ai criteri di scelta economica, compreso i parametri di valutazione dell’efficacia di quelle opere, che invece sono stabiliti dall’Autorità dei Trasporti.
Il DPCM sul dibattito pubblico stabilisce che l’Amministrazione aggiudicatrice o l’Ente aggiudicatore elaborino il dossier di progetto dell’opera, con cui è motivata l’opportunità dell’intervento: in realtà nel processo di informazione, partecipazione e confronto pubblico sull’opportunità, sulle soluzioni progettuali di opere, ovvero nei documenti di fattibilità delle alternative progettuali delle opere, sono già descritte le soluzioni progettuali proposte, comprensive delle valutazioni degli impatti sociali, ambientali ed economici, in coerenza con le linee guida per la valutazione degli investimenti in opere pubbliche.
Niente di nuovo sotto il sole, si potrebbe azzardare, ma, nella realtà dei fatti, il vero problema rimane l’oggetto del dibattito pubblico, “l’oggetto” è il progetto o lo studio di fattibilità, che benché sia corredato della valutazione degli impatti sociali, ambientali ed economici, rimane un oggetto fortemente ancorato alla dimensione fisica del progetto. Oggetto del dibattito pubblico e centrale in questa visione del territorio sottoposta al giudizio collettivo, non è quindi lo sviluppo economico desiderato di un’area, l’analisi delle sue eventuali problematiche in materia ambientale, di cui i progetti dovrebbero essere strumenti di attuazione, ma le “conseguenze” sulla fattibilità delle soluzioni già preconfezionate.
Questa apparentemente corretta logica, che invoca la disponibilità di un progetto di fattibilità che ha come corollario anche la valutazione di massima economica, ambientale e sociale, è, nei fatti, quanto di più antidemocratico esista: la tautologia che segue l’idea che dal progetto discenda un impatto, impedisce l’altra tautologia, più efficace in tempi di crisi che presume che dall’analisi dei problemi discenda il tipo di progetto. La confusione tra l’obiettivo, lo sviluppo economico e il progetto, è evidente.
L’antidemocrazia consiste proprio nel fatto che la risoluzione di problemi che interessano la collettività, è stata già affrontata e risolta dalla volontà del principe che confida nella funzionalità del progetto e sul fatto che sia proprio quello stesso progetto a poter risolvere i problemi. Questo automatismo, presupposto del dibattito pubblico, è quanto di più lontano possa esistere dalla realtà della politica economica, con l’aggravante di una sorta di “sovranismo” attribuito al “popolo”, spesso indifferente alla soluzione dei problemi collettivi ed interessato solo alla risoluzione dei “suoi” problemi. E’ qui che interviene la limitatezza delle linee guida per la valutazione degli investimenti: ci leghiamo allo strumento dell’analisi costi benefici invocando indicatori banali (treni/ km aggiuntivi o veicoli/km), dimenticando la funzione intergenerazionale degli investimenti, calcolandone solo ed esclusivamente il costo finanziario e non il suo “peso”, cioè il valore di opportunità economica capace di contribuire alla scelta politica,di chi è democraticamente eletto e governa. E’ cosi che la valutazione ex ante dei fabbisogni infrastrutturali, si riduce ad un confronto dei traffici previsti, nell’analisi dei deficit di capacità dei sistemi, ecc.
Questo percorso solo apparentemente logico che osanna all’efficienza delle gestioni, non risolve la necessaria efficacia degli investimenti pubblici, anche di quelli riferiti alla ricerca di soluzioni light al deficit di capacità. Infatti:
- ignora cosa sia il fallimento del mercato, vale a dire l’incapacità in alcune aree di poter produrre servizi in maniera efficace, nel rispetto della coesione economica e sociale e, più in generale, del diritto costituzionale ad avere le stesse possibilità di crescita economica e di spostamento in qualunque parte d’Italia si sia nati;
- subordina l’azione economica e di gestione “industriale” dei concessionari monopolisti naturali i cui amministratori sono tenuti per legge (sic!) al conseguimento di un profitto alle volontà dei tecnocrati di turno e non della politica, cioè della gestione della “polis”;
- impedisce innovazioni sul piano dell’erogazione dei servizi, ormai orientato dal trasporto frazionato e servito da modalità distinte a soluzioni di viaggio o di trasporto integrato (mobility as a service, MaaS), non offre pertanto criteri di valutazione della domanda di servizi di trasporto a favore di servizi di mobilita integrati, multimodali e in tempo reale per i passeggeri, e di servizi di trasporto intermodali e logistici integrati per le merci;
- apre la strada all’autofinanziamento delle reti, anche di quelle finanziate dalla collettività; alla concorrenza per confronto, la yardstick competition, inadatta alla valutazione dell’efficienza dei monopoli di dimensione nazionale, orientando scelte di politica economica sussidiate dalla fiscalità generale a convenienze “locali”.
Benvenuto medioevo.