Secondo Max Weber la città è “ambito territoriale caratterizzato dalla presenza di un complesso di funzioni e di attività integrate e complementari, organizzato in modo da garantire elevati livelli di efficienza e da determinare condizioni ottimali di sviluppo delle strutture socio – economiche”. Questa definizione testimonia già da sola la forza e la vita di un ambito urbano legato essenzialmente alla pluralità delle funzioni e alla vivacità delle stesse. Sembra quasi che più aumenta la interazione tra i fruitori della città e coloro che al suo interno offrono determinati servizi, determinati prodotti, più cresce la convenienza o l’interesse a vivere in un determinato ambito urbano, in un determinato quartiere. Sembra quasi paradossale, ma in alcuni casi anche l’effetto congestione, l’effetto che in termini più sofisticati chiamiamo crescita della entropia, può addirittura rivelarsi un elemento positivo per la qualità della città. Questa premessa è necessaria considerato che il tema delle “periferie” rimane sistematicamente, scoperto e affrontato, solo in occasione delle verifiche elettorali ed è sistematico, quasi obbligato, che in ogni programma sia locale, che regionale, o nazionale compaia un “chiaro e improcrastinabile impegno ad affrontare e risolvere l’emergenza delle periferie”. Una emergenza presente quasi in tutti i nuclei urbani superiori alla soglia di 30.000 abitanti. Leggendo i vari programmi si trova un comune denominatore, quasi una terapia obbligata: “creare centri funzionali in ogni realtà periferica in modo da evitare che tali realtà urbane diventino quartieri dormitorio” oppure “creare siti attrezzati per consentire incontri sistematici tra coloro che vivono all’interno di aree periferiche” oppure “ubicare luoghi di aggregazione quali teatri, centri sportivi, centri culturali capaci di coinvolgere più abitanti delle realtà periferiche”.
Ebbene mi chiedo e vi chiedo come mai questi bellissimi programmi, queste interessanti dichiarazioni cariche di convinto interesse sociale non hanno mai, dico mai, risolto questa fastidiosa caratteristica che da sempre, quando si supera una determinata soglia residenziale, caratterizza questa dicotomia, tra il centro di una città e, la o le, periferie? Questa distinzione tipologica e funzionale forse non è risolvibile e se effettuate un’analisi storica di tutte gli insediamenti urbani nel tempo scoprirete che questa distinzione non ha trovato mai soluzione ed è sempre stato un obiettivo utile per aggregare un facile consenso e per poi, senza portare alcuna giustificazione, convincersi che tale obiettivo purtroppo resta utopico.
Allora proviamo a prospettare una ipotesi banale che potrebbe essere considerata come proposta pilota. In realtà vorrei prendere come esempio una serie di località residenziali romane ubicate lungo il tracciato della linea C della metropolitana di Roma quali in particolare: Monte Compatri-Pantano, Graniti, Finocchio, Bolognetta, Borghesiana, Due Leoni – Fontana Candida, Grotte Celoni, Torre Gaia, Torre Angela, Torrenova, Giardinetti, Torre Maura, Torre Spaccata, Alessandrino, Parco di Centocelle, Mirti, Gardenie, Teano, Malatesta, Pigneto, Lodi, San Giovanni. Questi che per la linea C sono solo fermate, nella realtà, esclusa la fermata di San Giovanni, prima erano ambiti periferici della città di Roma; si, erano veri ambiti periferici, fino a quando il collegamento con l’impianto urbano centrale di Roma aveva tempi e frequenze tali da raggiungere, ed in alcuni casi superare, le due ore. Chi in passato abitava a Monte Compatri o a Giardinetti veniva al centro di Roma solo per lavoro e mai per “conoscere” e “frequentare”, ciò che altrimenti è impossibile creare o ricreare, cioè “il centro”. Questa in fondo può essere una banale presa d’atto e forse potrebbe davvero diventare un nuovo approccio al superamento di ciò che definiamo “la emergenza delle periferie”, un’emergenza che non deve essere relegata alla sola propaganda elettorale. Diventa quindi fattore principe, direi primo passo risolutore, la efficienza, la efficacia e la sistematicità dei collegamenti tra ciò che si configura “centro” e ciò che oggettivamente si configura come “periferia”.
Certamente andranno poi realizzate tutte le realtà di aggregazione di interesse culturali, senza dubbio anche la qualità dell’arredo urbano delle aree periferiche andrà adeguatamente riqualificata, ma non è pensabile annullare questa distanza concettuale inventando altri centri o peggio ancora illudendo che il centro o le aree centrali di una città possano perdere nel tempo una caratterizzazione che assicura la sopravvivenza funzionale di ciò che chiamiamo città, di ciò che in modo encomiabile riscontriamo nella definizione di Max Weber. Sembra quasi un paradosso ma più cerchiamo di costruire centri in aree periferiche della città, più aumentiamo la funzione “periferica” di tali ambiti.
Sarà che vivendo a Roma, nel centro oggi non si trova traccia di quel complesso di funzioni e di attività integrate atte a garantire livelli di efficienza, neppur minimi, ne’ tantomeno segni di quello sviluppo socioeconomico ottimale di weberiana memoria, sorge il dubbio che gli attuali amministratori della città abbiano deciso di periferizzare il centro piuttosto che centralizzare le periferie.
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