LA SPERANZA E L’OTTIMISMO DELLA VOLONTÀ E NON DELLA RAGIONE PRODOTTI PERICOLOSI PER UN GOVERNO ALLE PRIME ARMI

Il Documento di Economia e Finanza non può nascondere lo stato dell’arte, non può non anticipare un immediato futuro in cui, per evitare un vero default del Paese, sarà necessario prendere delle decisioni non facili come, ad esempio: l’aumento dell’IVA fino al 25%.

Per garantire la discesa progressiva del disavanzo programmata nel Documento di Economia e Finanza, tra coperture alternative alle clausole di salvaguardia, somme destinate a finanziare le politiche invariate e fondi ulteriori per rispettare i target del disavanzo, si richiedono misure pari a circa 25 miliardi nel 2020, 36 miliardi nel 2021 e circa 45 miliardi alla fine del periodo.

Di fronte a questo inevitabile e triste traguardo non riusciamo a capire come il Governo possa evitare di indicare sin da ora possibili terapie, possibili alternative. Il Ministro Tria, in una intervista pochi giorni fa, ha dichiarato che ricorrere ad una “patrimoniale” sarebbe un vero suicidio per il Paese e il Premier Conte ha assicurato che per onorare le norme di salvaguardia non ci sarebbe stato l’aumento dell’IVA. A questa comunicazione contraddittoria scatta la ricerca su quali possano essere i proventi nei prossimi otto mesi capaci di dare allo Stato quel respiro finanziario necessario per non crollare. I possibili introiti possono venire: dalla spending review, dalla vendita di quote immobiliari, dalla vendita di partecipazioni, dall’annullamento di investimenti infrastrutturali, ecc.

Dalla spending review, anche se volessimo davvero contenere la spesa, ad esempio, nel comparto della sanità o del trasporto pubblico locale, otterremmo una disponibilità di appena 5 (cinque) miliardi di euro. Ma questo significa ridurre il livello di assistenza dei servizi minimi garantiti ai cittadini, con le conseguenti perdite di consenso elettorale.

Dalla vendita di beni demaniali, anche in questo caso mettendo sul mercato edifici di competenza del Ministero della Difesa, potremmo ottenere nel biennio 2019 – 2020 una cifra non superiore ai 3 (tre) miliardi e non, come ipotizzato dal Governo, a 18 miliardi.

Dalla vendita di partecipazioni (quote dello Stato in ENEL, ENI. ecc.) nel biennio 2019 – 2020 potremmo ottenere al massimo 5 – 6 miliardi. In realtà un’operazione di privatizzazione in corso prevede che i pacchetti Eni ed Enel in mano allo Stato siano venduti entro l’autunno. E una volta avvenuta la cessione ai fondi istituzionali, vale ricordare che al Ministero resterà una quota del 26,24% di ENEL e del 25,76% di ENI. Lo Stato, inoltre, potrebbe riservarsi di vendere una parte di Finmeccanica e delle quotande Poste, ENAV e SACE, recuperando una ulteriore quota di circa 7 miliardi di euro.  Ma, ed è questo il punto,  scegliere di vendere e scegliere a chi vendere, potrebbe essere letto di mercati internazionali come una svendita di ricchezza e quindi un momento di seria difficoltà del Paese e non una libera scelta di politica industriale come un paese avanzato come l’Italia richiederebbe.

Questa rilevante operazione di vendita porterebbe nelle casse dello Stato un importo globale di circa 20 – 22 miliardi di euro, un importo che assicurerebbe parzialmente la quota necessaria per evitare l’aumento dell’IVA o il ricorso ad una patrimoniale. Una simile operazione però impoverirebbe la ricchezza dello Stato e appesantirebbe ulteriormente il “rischio Paese” legato all’attuale forte deficit (2.300 miliardi di euro, pari al 132% del PIL). Senza contare che nel frattempo il fabbisogno, pur oggetto di un certo realismo confluito nel DEF, continua a crescere: solo per fare un esempio le Ferrovie dello Stato stanno piazzando altri 1.7 miliardi di euro di prestiti, a causa, soprattutto, della mancata liquidità degli investimenti coperti dallo Stato e promessi con vari atti programmatici abbastanza pomposi, ma vuoti di cassa. Senza parlare di alcune necessità di intervento para pubblico per il salvataggio di aziende la cui chiusura o la cui privatizzazione produrrebbero disoccupazione ed inefficienze del sistema.

Il contenimento della spesa per cassa in infrastrutture è in parte già avvenuta e la lentezza con cui si procede ormai da quasi un anno nell’apertura di nuovi cantieri dimostra che, dal momento del suo  insediamento, il Governo  ha già effettuato un contenimento di spesa di circa 2 miliardi

In ogni caso la scelta di varare lo stesso provvedimenti legislativi che bruciano potenzialmente nel prossimo triennio 133 miliardi di euro, è stata già operata. Maggiori spese che andranno dal 2019 al 2021 e che, a esser precisi, riguarderanno per ben 94 miliardi tre voci: pensioni, reddito di cittadinanza e ammortizzatori sociali. In questo contesto il termine potenzialmente, rappresenta solo le riserve di bilancio destinate a misure elettoralistiche e propagandistiche per i prossimi anni , ma a fronte di sacrifici richiesti a tutta la collettività siamo davvero sicuri che tra le alternative non ci sia quella “del passo indietro”, della normalizzazione dei termini e delle idee di politica industriale, della prevalenza del buon senso ?

Del resto, da un lato la compagine di Governo, formata dai due schieramenti (Lega e M5S), può, nel breve periodo, dimostrare ai propri elettori di aver mantenuto i due impegni chiave che avevano caratterizzato le rispettive campagne elettorali; dall’altro, però, il Governo è ora costretto ad inventarsi soluzioni e strategie che si trasformeranno nel breve periodo in forti oneri che ricadranno automaticamente sulla stessa base elettorale.

Purtroppo solo adesso i due schieramenti stanno capendo quanto sia stato inopportuno ottenere il governo del Paese vendendo un futuro privo di certezze ma, soprattutto, incapace di produrre crescita e sviluppo.

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