I MESI E GLI ANNI DOPO QUESTA SCONVOLGENTE STASI

Io sono nato nel 1944 e tutti i miei coetanei ricorderanno che nella nostra prima infanzia (fino all’età di 5 – 7 anni) nelle nostre case c’era un ripostiglio o, addirittura, una stanza in cui erano ammassate le provviste (legumi, farina, pasta, olio, frutta secca, ecc.). i nostri genitori, sia del nord, del centro e del sud del Paese, erano infatti convinti e al tempo stesso preoccupati che il fenomeno bellico si sarebbe potuto ripetere e l’esperienza della fame vissuta in guerra aveva allertato tutti a “conservare”, ad essere pronti nel sostenere un altro blackout.

Sembra strano ma questa sensazione, questa angoscia la vivremo quando saremo usciti da questa fase critica. L’effetto “coda” di questa esperienza sarà sicuramente lungo ed ho volutamente portato l’esempio del dopo guerra che ha avuto un effetto prolungato per quasi un decennio. Sicuramente molti osserveranno che questa coda così lunga era dovuta anche alla durata della seconda guerra mondiale, cinque anni; ma quando un sistema come il nostro si abitua a vivere per oltre 75 anni senza vivere mai una crisi motivata e diffusa di rischio della vita, cioè quando per 75 anni gli eventi bellici avvengono tutti in altre parti del mondo e mai nel nostro Paese e nella Unione Europea, allora questo fenomeno dirompente viene vissuto in modo davvero traumatico. Aggiungo poi che dopo la seconda guerra mondiale i nostri genitori erano, chi più chi meno, coinvolti nel processo legato alla ricostruzione del Paese: una ricostruzione infrastrutturale, sociale ed economica e quindi vivevano una fase della nostra storia carica di un impegno davvero entusiasmante; un impegno che riuscì a far superare le negatività lasciate in eredità dalla guerra. La guerra aveva praticamente bloccato tutti per un arco temporale lungo circa cinque anni, nel caso del “corona virus” il blocco speriamo non superi i cinque mesi e, sembra strano ma i 5 mesi sicuramente avranno un trascinamento molto più lungo e molto più incisivo nelle nostre abitudini. Questa sostanziale differenza penso vada motivata anche analizzando la resilienza delle nuove fasce generazionali. Come è noto la resilienza indica la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza alienare la propria identità, ma proprio questa dote potrà essere davvero presente solo a condizione che prenda corpo una azione diffusa di un processo, comune e condiviso, di reinvenzione di ciò che chiamiamo Stato. Occorrerà cioè costruire le motivazioni per una nuova umanità in un nuovo Paese, forse in un nuovo pianeta. Dovremo cominciare dall’analisi degli errori commessi e questo esercizio sicuramente sarà il più facile perché in fondo questa tragica esperienza ci regalerà il quadro globale delle superficialità, delle sottovalutazioni commesse da tutti coloro che si sono susseguiti nella gestione dello Stato e degli Stati. Errori commessi non solo nel comparto della sanità ma anche in comparti completamente diversi come la logistica, il controllo e la organizzazione del territorio. Senza aprire il campo ad inutili e pretestuose polemiche, senza amplificare contrasti tra schieramenti politici che non possono considerarsi estranei agli errori commessi in passato. Ripeto, questa analisi rappresenta la fase e l’approccio più facile mentre diventa complessa e difficile l’azione che dovrà portare alla identificazione di ciò che possiamo definire un cambiamento epocale, un cambiamento che in realtà si configurerà, lo speriamo, come ciò che rafforza e supporta la resilienza.

Alla fine di questa grave catastrofe mondiale avremo bruciato un volano di risorse superiore a milioni di miliardi di euro, solo nel nostro Paese più di 4.000 miliardi di euro. Avremo bruciato queste risorse per sopravvivere senza poter utilizzare tali risorse per altro se non per mantenere i livelli socio economici raggiunti dopo secoli di attività. Ed è davvero ridicolo parlare di recessione o di crollo del PIL a – 5% o – 8%; è ridicolo dopo una simile distruzione diffusa dei mercati usare indicatori che per anni, ripeto per anni, non avranno più senso e, quindi, sarà necessario costruire un nuovo sistema socio economico. Ma nascerà spontaneo un interrogativo: come mai una esperienza, speriamo, durata pochi mesi, possa aver cambiato tutti i riferimenti portanti della economia, del vivere sociale. Purtroppo a chi solleva questi dubbi ricordo un passaggio banale commesso dal Governo: il primo provvedimento annunciato parlava di 3,6 miliardi di euro. In realtà il Governo non aveva capito ed intuito la dimensione del dramma.

Anche gli altri Paesi, da quelli della Unione Europea agli Stati Uniti, avevano sottovalutato i costi di una emergenza che ormai a scala mondiale si attesta sui 20.000 miliardi. Un costo che nei fatti serve solo a bilanciare i danni provocati dal blocco dell’economia mondiale.

Allora prende corpo una prima condizione: solo la competenza ci ha fatto superare la grave crisi; è tornata, in realtà, vincente la logica che impone la competenza nella gestione del Paese e questo convincimento imporrà una rivisitazione sostanziale delle candidature al Parlamento. Dobbiamo cioè convincerci che non è più consentito aggregare il consenso solo utilizzando la tecnica degli schieramenti contrapposti quasi fosse un banale “tifo” ma il Paese dovrà convincersi che non si possono portare in Parlamento delegati capaci solo di aggregare il consenso e quindi sarà necessario filtrare questo accesso garantendo in tal modo adeguati livelli qualitativi di chi intende accedere ad un consesso così fondamentale per le sorti del Paese. Non si vuole con una simile proposta incrinare minimamente la democrazia, anzi si vuole proprio evitare che, come avvenuto nell’ultimo quinquennio, si costituisca un Governo al di fuori di ogni logica partitica ma solo come sommatoria di maggioranze non rispondenti al mandato elettorale. Quindi primo atto una vera reinvenzione dei canoni della politica.

Il secondo atto dovrebbe essere quello di costruire un Piano organico per il Paese, un Piano che sicuramente troverà un nord con gravi problemi ed un sud con gravi problemi, cioè questa tragedia ci ha almeno regalato un Paese omogeneo e questo Piano dovremmo redigerlo ridefinendo degli scenari che non potranno non tener conto di come saranno cambiate le condizioni al contorno. Per condizioni al contorno intendo il crollo di economie solide come quella tedesca e quella francese. Un Piano non caratterizzato da indicazioni programmatiche ma da azioni da trasformare in riferimenti concreti ed operativi in tempi certi, sì un “Piano della ricostruzione organica di un Paese che in pochi mesi è diventato diverso”. Questo secondo atto dovrebbe essere la carica con cui motivare la intera base del Paese. Dovremo reimpostare tutto il quadro delle opere legate alla riqualificazione del territorio, alla riqualificazione del tessuto urbano nelle sue più complesse articolazioni, dovremo non programmare, ma realizzare le infrastrutture chiave da anni definite e da anni bloccate, dovremo reinventare la offerta dei servizi per renderla comparabile a quella di un Paese industrialmente avanzato.

Il terso atto, anche questo ambizioso e non facile, dovremmo tentare il passaggio da Unione Europea a Stati Uniti d’Europa. La esperienza che stiamo vivendo ha dimostrato al tempo stesso la freddezza e la indispensabilità di un contesto comunitario. Alla freddezza vissuta nella assenza di un codice comportamentale comune nell’affrontare e gestire una emergenza epocale ha fatto riscontro un intervento della Banca Centrale Europea che ha subito ridimensionato le forti crisi finanziarie esplose nei singoli Stati. Ma questa grave esperienza ha però dimostrato che il modello della Unione è completamente distante dalle reali esigenze di un sistema di Stati che dopo la lunga evoluzione CECA, EURATOM, CEE, UE sente il bisogno di costruire un tessuto comune sociale, economico e politico.

È un modo di pensare alla grande, non per distrarsi e quindi rincorrere utopie, ma pensare alla grande perché solo così sarà più facile ricaricare le menti e le speranze che, anche se non in un arco temporale lungo, si sono spente. Dobbiamo evitare che tutto questo sia irreversibile.

5 commenti

  1. Bello Ercole! E’ vero, noi cosa sia la guerra non lo sappiamo davvero. Anche in Iraq, sembrava quasi di essere in un film…l’Europa, certo, che sia la via d’uscita lo dicono in tanti (troppi), ma cosa su cosa voglia dire davvero non si va oltre le banalità. Secondo me gli Stati Uniti d’Europa – o,più modestamente, una Europa polti
    icamente coesa – non sono possibili a 27 ed è+ ora di dirselo seriamente. Ricordi? Un aureo libretto con Gerado Mombelli…Tony

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  2. Condivido completamente quanto hai scritto. Mi soffermo però sul fatto che oggi forse l’entusiasmo che c’era dopo la seconda guerra mondiale non mi sembra sia presente nei cittadini. Inoltre anche le capacità professionali per affrontare tali nuovi situazioni emergenziali, non mi sembrano molto diffuse. Non abbiamo molto tempo, come sistema paese, per risolvere queste situazioni emergenziali nel breve tempo a disposizione, spero che emergano risorse umane che in questo ultimo periodo sono state soffocate da eventi e da politiche poco lungimiranti.

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  3. Una lucida analisi come sempre e visione di prospettiva.

    Ma nel mondo dell’effimero e delle corse da 100mt e vittoria/sconfitta lampo come si contestualizza?

    >

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  4. Ciao Ercole, condivido il tuo pensiero, come sempre basato su una ineccepibile valutazione dei fatti e mai catastrofista o pessimista, lasci sempre una porta spalancata al futuro, alla possibilità. Un abbraccio. Giorgio

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