È la prima volta che a scala mondiale si decida di “bloccare” la vita del pianeta e come tutte le prime volte produce come immediata sensazione un senso di paura, un senso di angoscia. Di epidemie il pianeta ne ha vissute tante ma mai la reazione è stata così omogenea ed ha invocato una soluzione che nessuno di noi immaginava possibile perché era entrato nel nostro DNA il concetto di essere “liberi” e quindi difficilmente condizionabili.
In passato abbiamo sempre pensato di sconfiggere i virus cercando terapie di tipo medico, nei secoli passati ricorrendo anche alla religione, alle false credenze, ma mai avevamo deciso di “sparire” fisicamente in modo da non incontrarlo. È senza dubbio la rivoluzione scientifica più nuova e, in modo epidemico, si è diffusa in tutti noi la volontà di rispettare questa nuova terapia. Ora dobbiamo avere il coraggio di raccontare a noi stessi cosa potrà produrre questa grande ed inimmaginabile operazione nel futuro non della economia mondiale, ma della organizzazione di ciò che chiamiamo società; cosa accadrà nelle modalità con cui nel tempo si sono costruite le politiche di un Paese, di una Regione, di una città. La gente di fronte al rischio della vita ha seguito ogni scelta presa da chi ha indossato la veste del competente, la veste del salvatore, la veste di chi ha ritenuto utile ed opportuno fermare il mondo convincendo tutti, tutti della validità della scelta. Di fronte al rischio della vita, di fronte all’assenza di un vaccino, tutti hanno creduto in colui che ha “deciso”, in realtà dobbiamo ammettere che quello che stiamo vivendo è un ritorno al dirigismo, un ritorno al decisionismo, un ritorno alla vittoria del più forte. Questa sensazione ora non ce l’abbiamo perché siamo stressati dalla angoscia generata dal numero di colpiti dal virus, dal numero di morti, ma fra qualche giorno, quando questa grave esperienza sarà finita, assisteremo ad una serie di cambiamenti che ritengo utile in modo sintetico affrontare.
La contrapposizione all’interno della “cosa pubblica”; aver vissuto una esperienza in cui ha vinto la delega piena ad un soggetto preposto al governo del Paese, aver utilizzato il Parlamento come sede obbligata ad avallare le scelte senza poter in alcun modo verificarle, aver cercato per senso di responsabilità il consenso diffuso, sono tutti comportamenti giusti in quanto avvenuti in una fase davvero critica del Paese ma che, al tempo stesso, lasceranno una eredità non facilmente superabile: quella di annullare lo spontaneismo tipico degli schieramenti politici; non riesco ad esprimermi perché è una sensazione difficile che sicuramente è presente in tutti noi ma è come se questa esperienza ci allontani non so per quanto tempo, non certo per poco tempo, da ciò che chiamavamo democrazia. In fondo se ogni idea, se ogni proposta politica viene poi gestita da chi, con un gruppo di tecnici, ci ha portato fuori da una emergenza epocale non ha senso costruire schieramenti alternativi, non ha senso ostacolare un simile riferimento istituzionale. In realtà la coda della emergenza rimarrà a lungo nella nostra vita sociale ed economica e sono sicuro entreranno in crisi molti, anzi moltissimi, convincimenti ideologici o partitici. Lo so questa mia analisi è brutta e scomoda ma vorrei che meditassimo a lungo su una simile tematica perché la mia generazione, abbondantemente ultrasettantenne, questi cambiamenti li avverte, li pesa ed è in grado anche di misurare in anticipo le evoluzioni o le involuzioni.
La rivisitazione sostanziale della nostra educazione scolastica. Forse pochi hanno capito e pesato la decisone del Governo di annullare l’esame di Stato per i laureati in medicina; una decisone giustissima in presenza di una inimmaginabile criticità, ma questa scelta sono sicuro farà meditare a lungo su tutti gli altri accessi all’attività professionale. Il filtro per i laureati in Giurisprudenza, in Ingegneria, senza dubbio utili, non potranno però essere, come invece sono attualmente, un modo per ritardare l’accesso alle attività professionali. D’altra parte la decisione presa per i laureati in medicina ha dimostrato che ci sono 20.000 laureati (lo scrivo per intero perché sembra un dato non vero: ventimila) che sarebbero entrati nel mondo del lavoro, che sarebbero diventati medici non prima di due, tre anni. E questo deve necessariamente comportare, una volta conclusa questa fase critica, una sostanziale rivisitazione della nostra educazione scolastica almeno di quella legata proprio alla fase terminale degli studi ed all’ingresso nel mondo del lavoro. Questo non facile processo riformatore sono sicuro, dopo la testimonianza data dal mondo della sanità in questa occasione e dopo la presa d’atto degli errori commessi in passato nell’aver ritenuto ridondante la offerta sanitaria in molte aree, sarà vincente e penso produrrà, finalmente in tempi certi, adeguati strumenti capaci di rendere più efficiente il servizio sanitario.
La forte dicotomia tra la grande aggregazione urbana e le piccole realtà urbane. È un fenomeno conosciuto da sempre: in dodici città vive circa il 30% degli abitanti dell’intero Paese e il restante 70% vive in ambiti urbani che vanno da una dimensione massima di 120.000 abitanti ad una minima non superiore a 100 abitanti. Ebbene questa distinta articolazione dell’abitare, del costruito, ha trovato in questa emergenza un comune denominatore nei mezzi di comunicazione, la televisione e la radio hanno, praticamente, reso simili le caratteristiche e le condizioni di questi due assetti urbanistici. In realtà il costruito, la casa non si è legata al tessuto urbano in cui è ubicata, ma idealmente si è legata alla descrizione mediatica che ha reso omogeneo un Paese che omogeneo non è. Anche questa mia considerazione non è facile da comunicare perché è già difficile viverla. Il nostro coprifuoco è stato fortunatamente rivisitato da questo legame mediatico che ci ha coinvolto in modo incredibile. Sono sicuro che la dicotomia fra queste due realtà territoriali (grande aree urbane e piccole e medie) viene ridimensionata in modo sostanziale e questo contribuirà moltissimo nella curiosità degli italiani nel conoscere il proprio Paese.
Lo snellimento delle procedure. Forse stiamo capendo che i vincoli a fare, i vincoli a decidere fanno parte di una folle decisione di chi è preposto alla gestione della cosa pubblica, una folle decisione di rispettare vincoli procedurali che portano automaticamente al blocco di ogni scelta operativa. Poi però in presenza della emergenza tutto diventa possibile. Sì tutto diventa possibile di fronte alla pandemia; ma se diventa possibile di fronte ad una emergenza così grave mi chiedo perché bisogna aspettare la pandemia. Questo mio interrogativo sembra simili agli interrogativi tipici dei malati di mente, cioè di chi non riesce a capire un paradosso che questo Paese vive da molti anni e in modo particolare nell’ultimo quinquennio. Ora tutto si approverà anche ricorrendo a procedure snelle e a pareri dati in pochi giorni e non in pochi mesi o anni. Tutto questo dimostrerà che molti Dicasteri motivano la propria esistenza, il proprio ruolo proprio rendendo difficili i filtri autorizzativi, rendendo obbligati consensi ed approvazioni inutili. Faccio solo un esempio: la copertura di un investimento è riportato nella Legge di Stabilità per cui ci si chiede perché aspettare verifiche e controlli inutili del Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Mi fermo perché altrimenti diventa inutile la esigenza di meditare su simili argomentazioni, mi convinco però sempre di più che questa inaspettata esperienza ci renderà maturi, non “più maturi” ma “maturi” perché non lo eravamo.
Grazie Giuseppe
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Bellissimo articolo
Passa nel mio blog se ti va 😉
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Avremo imparato qualcosa?Nell’immediato forse si,ma passata la paura….probabilmente “passata la festa gabbato lo Santo”
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